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Markirya è un’opera poetica scritta da Tolkien per consolidare la lingua Quenya. Il poema fu rivisto prima della morte dell’autore e venne modificato con l'evoluzione della lingua Quenya, l'Alto Elfico parlato a Valinor.

Insieme a Namárië è uno delle due opere più lunghe (generalmente Markirya viene considerato il più lungo) e più conosciute in lingua Quenya, grazie a questi due poemi è stato possibile ricostruire la lingua elfica di Tolkien. Markirya è infatti il più antico testo di grande lunghezza, poiché esisteva già una versione completata nella lingua Quenya non ancora perfezionata da Tolkien.

Etimologia[]

Il titolo originale era Oilima Markirya che significa "L’ultima Arca", in epoca posteriore l’aggettivo iniziale è stato rimosso poiché non era più presente nel vocabolario Quenya. Markirya è rimasto compitato con la “K”, nonostante le regole fonologiche Quenya obblighino la scrittura del suo “K” con la consonante “C”. Il nome Markirya è una possibile unione dei sostantivi “uomo-nave”, infatti è presente il vocabolo “cirya” col significato di “nave” e con la complicazione di “K”.

Testo[]

Qui di seguito sarà riportata la versione in Quenya dal titolo “Markirya” ma nel testo sarà utilizzata la consonante “C” al posto di “K” e la dieresi sulle "e" finali benchè nel testo primordiale non erano presenti.

Originale Quenya[]

Man cenuva fána cirya
métima hrestallo círa,
i fairi nécë
ringa súmaryassë
ve maiwi yaimië?
Man tiruva fána cirya,
wilwarin wilwa,
ëar-celumessen
rámainen elvië
ëar falastala,
winga hlápula
rámar sisílala,
cálë fifírula?
Man hlaruva rávëa súrë
ve tauri lillassië,
ninqui carcar yarra
isilmë ilcalassë,
isilmë pícalassë,
isilmë lantalassë
ve loicolícuma;
raumo nurrua,
undumë rúma?
Man cenuva lumbor ahosta
Menel acúna

ruxal' ambonnar,
ëar amortala,
undumë hácala,
enwina lúmë
elenillor pella
talta-taltala
atalantië mindonnar?
Man tiruva rácina cirya
ondolissë mornë
nu fanyarë rúcina,
anar púrëa tihta
axor ilcalannar
métim' auressë?
Man cenuva métim' andúnë?

Traduzione[]

Ecco la traduzione dell'opera, secondo il testo Quenya.

Chi vedrà una nave bianca
lasciare l'ultima sponda,
i pallidi fantasmi
nel suo freddo petto
simili al lamento dei gabbiani?
Chi si accorgerà di una nave bianca,
vaga come una farfalla,
fra le correnti marine
su ali come di stelle,
quando il mare si gonfia,
la spuma irrompe,
le ali scintillano,
la luce scema?
Chi udirà il fragore del vento
come il fogliame nei boschi;
le bianche rocce rimbombare
al bagliore della luna,
al calar della luna,
al cader della luna
la candela di un morto;
il romorìo della tempesta,
l'abisso che si muove?
Chi vedrà le nuvole radunarsi,
i cieli incurvarsi
sopra colli che si sgretolano,
il mare sollevarsi,
gli abissi spalancarsi,
l'antica oscurità
oltre le stelle
cadere
sopra torri crollate?
Chi si accorgerà di una nave spezzata
sulle nere rocce
sotto cieli squarciati,
un sole offuscato che luccica
su ossa scintillanti
nell'ultima mattina?
Chi vedrà l'ultima sera?